19 Aprile 2016

«Morì per lo stress da strage, è un eroe»

«Morì per lo stress da strage, è un eroe»
impazzì dal dolore: la nipote e il codacons si rivolgono al prefetto per far riconoscere paolini come la 21esima vittima

di Gino Melchiorre CHIETI Furono venti le vittime dell’ eccidio nazista di Santa Cecilia a Francavilla avvenuto il 30 dicembre del 1943, ma il prefetto di Chieti, Antonio Corona, dovrà forse aggiornare questa lista aggiungendovi un altro nome, Aldo Carlotto Paolini, deceduto cinque anni dopo la strage per uno stress emotivo da cui non si riprese mai. Una richiesta in tal senso sta per essere inoltrata al prefetto e ad altre autorità dall’ avvocato Vittorio Ruggieri, coordinatore Codacons regionale, su pressione della nipote di Carlotto, Paola Martella, che custodisce la memoria dello zio e della sua lunga agonia iniziata allora. Quella mattina i tedeschi, dopo aver distrutto nei giorni precedenti il centro abitato di Francavilla, costrinsero alcune famiglie a sfollare verso Chieti, e nello stesso tempo rastrellarono diversi uomini, tra i quali Carlotto e il cugino Michele Sciulli, per scavare trincee nelle vicinanze di Casa Calvi, tuttora esistente, in contrada Santa Cecilia. Nel viavai dello sfollamento un militare, Ulrich Klawunn, cercò di violentare una ragazzina quattordicenne, Carmela Gattone, ma intervenne il papà, Orazio, che accoltellò il militare alla gola, ferendolo a morte. Si scatenò la reazione dei commilitoni, aizzati dal maresciallo Arnold Ehclers, che mitragliarono i giovani presso Casa Calvi uccidendone undici, e poco dopo ne uccisero altri nove in località Vallone. Il giovane Carlotto ed altri due, Ugo Mondazzi e Antonio Lorito (che raccontò l’ episodio in una pubblicazione curata dal Comune), si rifugiarono dentro Casa Calvi, ma furono presi e costretti da un sergente a seppellire i morti (“Toten begraben!” fu l’ ordine). Per Aldo Carlotto, ventenne, fu uno shock da cui non si riprese mai. Toccò a lui seppellire il cugino Michele, ancora vivo, in una fossa ricoperta di letame. Sopraggiunse la madre di Michele, e chiese del figlio, seppellito lì vicino alla meno peggio. Il giorno dopo Aldo e gli altri scampati furono costretti a tumulare anche le nove vittime del Vallone. Il sergente, di cui non si conosce il nome ma era il più umano di tutti, inviò Aldo e gli altri verso Ascoli Piceno, deportati in un edificio a due piani. Da qui, però, il giovane fuggì, incespicando in una immaginetta sacra della Madonna di Loreto, racconta la nipote Paola Martella, che l’ accompagnò nel ritorno a piedi a casa, dalla madre e dalla sorella, alle quali iniziò a raccontare l’ accaduto in maniera confusa, e lo ripeté allo stesso modo anche nei giorni seguenti. Era impazzito. I parenti riuscirono a ricoverarlo a Bologna, dove guarì. Tornato a Francavilla pochi mesi dopo, fu quasi costretto ad assistere al disseppellimento delle vittime d Santa Cecilia per il riconoscimento. Questa volta gli prese una crisi nervosa da cui non riuscì più a liberarsi. Ricoverato al manicomio di Teramo, peggiorò la sua situazione. Lo riportarono a casa nel 1949, e qui morì in preda a violente allucinazioni. Anche lui merita di essere ricordato come un eroe.
gino melchiorre

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