I MASOCHISTI DEL FESTIVAL
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- Libero
Era il 1993. Nella simpatica trasmissione di Rai 3 Cielito lindo, per la prima volta, lo straordinario Giacomo Poretti veste i panni di Tafazzi, un signore in tutina nera che ostenta un gran sorriso e contemporaneamente si prende a bottigliate sui maroni. È il simbolo del masochismo che negli anni diventerà, appunto, “tafazzismo”. Ecco, il tafazzismo è quella cosa della quale noialtri italiani raramente riusciamo a fare a meno. Qual è l’ultimo avvenimento piacevole, divertente, ma anche solo “normale” cui abbiamo assistito poco prima di essere investiti dal treno chiamato pandemia? Esatto, il Festival di Sanremo, quello stesso Festival che ora stiamo facendo di tutto per mandare gambe all’aria E voi direte: «Oh, c’è la pandemia! Non ci si può divertire! Vergogna! poi perché quelli lì pretendono il pubblico e agli altri non è concesso?». Perfetto, il pubblico. Il pubblico è uno dei motivi, se non addirittura il principale, per cui la 71ª edizione della kermesse che dà da mangiare a mezza Rai – può piacere o non piacere, ma è così – rischia di saltare. Amadeus e quelli che lottano insieme a lui per dare una parvenza di normalità al tutto, spingono per piazzare qualche centinaio di persone all’Ariston che siano sempre quelle, tutte controllate, tamponate, certificate, vidimate, igienizzate e altre cose che finiscono per “ate”. Come ha fatto intelligentemente Costanzo col suo Sciò, come ha fatto Maria De Filippi con i suoi Sciò, come ha fatto – in questo caso con dei figuranti contrattualizzati – X Factor col suo talent. No, per il Festival non si può perché «così si fanno due pesi e due misure». Da chi si alza l’urlo di condanna? quei buontemponi del Codacons? Sì, anche, perché quelli lì quando c’è da far casino sono sempre “nei premi”, ma non solo. La cosa imbarazzante e senza senso è che a comandare il vascello dell’anti è lo stesso mondo dello spettacolo, quello dei discografici, quello dei teatranti, quello degli artisti che «o concediamo il pubblico a tutti o non lo diamo a nessuno». Una roba senza senso se è vero come è vero che “lo spettacolo”, in Italia, è soprattutto il Festival di Sanremo e senza quello hai voglia a far riattivare il motore di una macchina – quella della musica – che è ferma e agonizzante da quasi un anno. gli artisti non ci sentono, si lagnano. Prendete Gabriele Ciampi, compositore, direttore d’orchestra giurato ai Grammy: «Le restrizioni devono essere uguali per tutti». Oppure la regista Emma Dante: «Se si decide di fare Sanremo con il pubblico, allora si riaprano teatri e cinema». O anche tutti i discografici che per settimane hanno implorato Amadeus di dar loro una mano e ora si mettono di traverso come tanti piccoli Tafazzini. Roba da matti. Sanremo non ci sarà il palco all’aperto di Piazza Colombo – e succulenti 10 milioni dello sponsor Ferrero -, non ci sarà il solito “casino organizzato” in città, ma questo non significa che si debba chiudere baracca o posticipare oltre il 2- marzo. Posticipare per cosa poi, per sperare che tra due mesi in Liguria spunti l’arcobaleno Suvvia, siamo seri: chi spinge per andare “più in là” lo fa solo perché tifa per i capoccioni Rai, quell’universo di reggenti in “scadenza” primavera che sperano di lasciare a chi verrà l’incombenza del “Festivàl dai ricavi ridotti” (37 milioni di pubblicità un anno fa). Sanremo traballa e contemporaneamente fa girare le balle ad Amadeus e quelli come lui (l’agente Lucio Presta in testa) che spingono per mettere in piedi un’edizione che magari non avrà le stelle straniere (e chissenefrega) ma può regalare un grande spettacolo “a prescindere” grazie ai talenti nostrani e a due tizi che ai tempi dei villaggi turistici si arrangiavano solo con le idee: Amadeus e Fiorello. Fate i bravi, smettetela di tirarvi (e tirarci) bottigliate sulle palle.
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- Tags: Festival di Sanremo, Rai