12 Maggio 2019

A Rienzi piacciono le spese legali solo se le incassa lui

La complicata storia delle querele intimidatorie con cui i potentati economici e politici cercano di spaventare i giornalisti si arricchisce di un nuovo capitolo. L’ associazione di difesa dei consumatori Codacons, guidata dall’ avvocato Carlo Rienzi, accusa Il Fatto Quotidiano di minacciare la sua stessa esistenza “impedendo all’ associazione di svolgere il proprio compito”. Infatti, protesta Rienzi, l’ avvocato del giornale Caterina Malavenda si è permessa di chiedergli “con toni perentori e minacciosi” di versare 15 mila euro di spese legali dopo una doppia condanna del tribunale di Roma. “Per il giornale sono una piccola somma ma per il Codacons rappresentano una risorsa fondamentale per la propria attività a tutela dei più deboli”, sostiene Rienzi. La foga polemica, stigmatizzata dallo stesso tribunale, lo trascina in un mondo fantasioso in cui difende i deboli dai ricchi giornalisti del Fatto. Siccome due pronunciamenti del tribunale non lo scoraggiano dalle sue elucubrazioni, spieghiamo ai lettori come stanno le cose. Il 31 ottobre scorso Il Fatto ha raccontato di un accordo tra Monte dei Paschi e Codacons con cui la banca ha rinunciato a una causa per diffamazione contro Rienzi – il quale in cambio non si è costituito parte civile in un processo contro gli ex vertici Mps. Codacons ha così ottenuto, tra l’ altro, 612 mila euro per le spese legali, mentre Rienzi personalmente ne ha avuti 291 mila: in tutto oltre 900 mila euro, 60 volte i 15 mila che non vogliono pagare al Fatto. Rienzi ha chiesto al giornale di pubblicare una lunga rettifica, pretendendo anche un titolo in prima pagina. A nulla valendo le richieste di restare nei limiti di legge, la pubblicazione non è avvenuta. Rienzi si è allora rivolto al tribunale con un ricorso d’ urgenza (art. 700 codice di procedura civile), chiedendo che venisse ordinata al giornale la pubblicazione. Il giudice Damiana Colla gli ha spiegato, in un’ articolata sentenza, come funziona le legge sulla stampa e in particolare che, nel caso specifico, la richiesta di rettifica “è priva dei requisiti di legge che possano aver determinato l’ insorgenza di qualsivoglia obbligo di pubblicazione”. Allora Rienzi ha fatto un ulteriore ricorso e si è preso un’ ulteriore lezione, visto che il tribunale presieduto da Luigi Argan ha stabilito che, a parte le questioni sulla lunghezza e sulla collocazione del testo, risultava dirimente il fatto che il direttore del Fatto non poteva neppure volendo pubblicare la rettifica, che peraltro nulla rettificava, limitandosi ad accusare di gravi omissioni e di etica traballante l’ autore dell’ articolo. La legge infatti vieta la pubblicazione di rettifiche che contengano possibili reati, e in questo caso il giudice ha rilevato “la natura diffamatoria del testo della rettifica in quanto idonea a recare nocumento all’ onore ed alla reputazione del giornalista”. Da qui la doppia condanna a pagare le spese legali, come accade di regola a chi perde una causa civile. E la singolare richiesta del presidente del Codacons Giuseppe Ursini di soprassedere alla richiesta di pagamento “in virtù anche della collaborazione tra il quotidiano e il Codacons”. L’ avvocato Malavenda, rilevando che “il riferimento all’ esistenza di una querela e all’ intenzione di proporre eventualmente anche giudizio in sede civile non è esattamente un segnale di collaborazione tra le parti”, ha chiesto di pagare i 15 mila euro avvertendo che, “in mancanza di adempimento spontaneo”, procederà “in via esecutiva”. Tanto, se il Codacons può permettersi di pagare 900 mila euro agli avvocati “anche esterni e costosi” per una causa, i ricchi sono loro. E i giornalisti del Fatto i deboli da tutelare, anche solo smettendo di tormentarli per aver dato una notizia sgradita.
giorgio meletti

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